Parigi val bene una messa. Specie se il Requiem è in onore di Re Djokovic, che ha perso il trono per mano dello scozzese Andy Murray, il primo britannico dopo 80 anni (Fred Perry nel 1936 era considerato il più forte anche se non c’era un ranking) a diventare numero 1 del mondo, il 26° della storia delle classifiche ATP e il secondo più vecchio a 29 anni e 5 mesi dopo l’australiano John Newcombe nel 1974 (che ne aveva 30 e passa). Dalla Parigi terrosa del Roland Garros alla Parigi indoor di Bercy, cioè dallo scorso 5 giugno 2016 al 5 novembre 2016, ovvero in appena cinque mesi, Murray ha avuto la forza di recuperare 8035 punti a colui che veniva indicato come invincibile, un ironman della racchetta (il serbo Djokovic, per l’appunto). E invece in questi 150 giorni convenzionali Djokovic ha vinto solo l’Open del Canada mentre Murray, che si è ripreso il mastino Lendl come coach, ha inseguito la vetta giocando ovunque, senza mai risparmiarsi: otto i tornei vinti dallo scozzese nel corso dell’anno, ovvero Roma, Queen’s, Wimbledon, le Olimpiadi di Rio de Janeiro, Pechino, Shanghai, Vienna e Bercy, ed al momento ha una striscia di 20 partite vinte di seguito. Scrollarsi di dosso 76 settimane da eterno secondo non è male ma chi pensa che il serbo Djokovic ceda fa un grosso errore. La situazione è ancora fluida perché tra una settimana inizia il Masters londinese di fine anno (in lizza anche lo svizzero Wawrinka, il canadese Raonic, il nipponico Nishikori, il francese Monfils, il croato Cilic e l’austriaco Thiem) a cui Murray arriva con 405 punti di vantaggio che però potrebbero non bastare a conservare la vetta se Djokovic dovesse vincere alla O2 Arena senza perdere neppure un match nella prima fase a gironi. Insomma tutto può succedere in vetta. Mentre dietro i nostri perdono terreno…
Andrea Curti
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