Nella Costituzione l’Italia ripudia l’uso della guerra. In realtà dal 1999 in avanti (bombardamenti sulla Serbia decisi da Massimo D’Alema, allora Premier, oggi pentito) l’ex Belpaese si è impegnato part time in una serie di micro-conflitti con spargimento di sangue, ben rientrando nel clima oggi descritto da Papa Francesco (“Stiamo vivendo una terza guerra mondiali a pezzetti”). Così l’Italia che non riesce ad avere spiegazioni dall’Egitto sulla tragica morte di Regeni né dagli Stati Uniti sullo spionaggio globalizzato mondiale, prova ad essere evanescente e vacua anche sull’impegno militare in Libia. Per sapere come la pensa il nostro paese bisogna assistere alla trasmissione di Barbara D’Urso, evidentemente il luogo più qualificato per rispondere a questo inquietante interrogativo: “Siamo in guerra o no?”. Renzi ha sciolto il busillis con la solita delicatezza: “Guerra? Ma non scherziamo. Mica mandiamo 5.000 uomini a combattere con questa disinvoltura”. In realtà l’Italia sta alla finestra non per vedere l’effetto che fa ma per capire chi effettivamente detiene il potere nel dopo-Gheddafi. E comunque non è una strategia peregrina. Quando sei vaso di coccio tra vasi di ferro con il petrolio di mezzo e alcune opzioni di nazioni più potenti (Francia, Germani) temporeggiare più che una libera scelta è una necessità. La politica estera non è il nostro punto di forza, ammesso che ne esista attualmente uno.
Daniele Poto
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