L’Italia ha confermato anche nel medagliere delle Paralimpiadi la presenza nella top ten internazionale. I dodici giorni di manifestazione hanno regalato un’orgia di medaglie con un numero di metalli ben superiore alla rassegna precedente. Facendoci scoprire a esempio quanto siano forti i “paralimpici” ucraini. Colpa o merito dell’infinitesimale divisione di categorie e classi. L’Italia davanti al televisore si è emozionata per le stoccate della Vio, la corsa della Caironi, gli infiniti exploit di uno Zanardi sempre sulla cresta dell’onda. Ma per noi sarebbe sciocco e puerile misurare le prestazioni con il metro tecnico tradizionale (il primato mondiale, il record italiano, la performance personale). Qui è in gioco qualcosa di diverso dall’imitazione dello sport normale e confidiamo che sia possibile evitare il gigantismo e l’esaltazione smodata del personaggio. Si è visto dove può portare questa esagerata tensione con il caso Pistorius. Chi non è normodotato, esattamente come i “normali”, può avere la tentazione di scivolare nel doping, di barare, di truccare le regole. L’esclusione della Russia parla da solo come messaggio testimoniale. Ogni microcosmo è paese. E questo che devono evitare le Paralimpiadi. Anche perché chi vince la medaglia d’oro in azzurro, tornando in Italia, ritrova i problemi di sempre, cioè un paese scarsamente duttile alla voce “ barriere architettoniche”. E dunque il grande messaggio di solidarietà e fratellanza più che per la durata di gare serva per il quotidiano, per il miglior inserimento degli agonisti. Così la cronaca sia virata in prassi di buone pratiche e comunque il riflettore non si spenga per riaccendersi tra quattro anni, in mezzo a quei fiumi di retorica a cui non sono sfuggiti i quotidiani sportivi in queste due settimane.
DANIELE POTO
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